Dove il crimine non esiste

Il carcere esiste in funzione dei criminali, ma “criminale” è un’etichetta, una categoria sociale artificiosa. Possiamo etichettare una persona quando è distante da noi, diversamente ciò che sappiamo di lei non può essere racchiuso in una sola parola. Allora ecco che la criminalizzazione, quindi il carcere (così come, ad esempio, la psichiatria), diviene possibile con la separazione degli individui, l’isolamento, l’alienazione, quindi la disgregazione della comunità, la morte dell’empatia, la negazione dei rapporti emotivi.

Ecco un brano di Nils Christie, tratto da “Il business penitenziario”.

Un modo di guardare al crimine è percepirlo come una sorta di fenomeno di base. Certi atti vengono visti come intrinsecamente criminali. Il caso estremo è il crimine naturale, atti talmente sbagliati che virtualmente si definiscono da soli come crimini, o almeno vengono considerati tali da qualsiasi essere umano ragionevole. Se ciò non accade, non ci si può definire esseri umani. Questo punto di vista è probabilmente vicino a ciò che la maggior parte della gente intuitivamente sente, pensa e dice a proposito del crimine grave. Mosè discese dal monte con le Tavole della Legge, Kant usò i crimini naturali come base per il suo pensiero giuridico.
Ma i sistemi in cui prevalgono tali punti di vista pongono anche certi limiti a questa tendenza alla criminalizzazione.
Il meccanismo sottostante è semplice. Pensate ai figli. I nostri figli e quelli degli altri. La maggior parte dei figli, a volte, agisce secondo modalità che la legge potrebbe definire criminali. Dei soldi possono sparire da un portafoglio. Il figlio non racconta la verità, almeno non tutta, su dove ha passato la serata. Picchia il fratello. Eppure in questi casi noi non applichiamo le categorie della legge penale. Non chiamiamo il ragazzo un criminale e non chiamiamo i suoi atti crimini.
Perché?
Perché non ci sembra giusto.
Perché no?
Perché conosciamo troppe cose. Conosciamo il contesto: il ragazzo aveva un disperato bisogno di soldi, era per la prima volta innamorato, il fratello l’aveva preso in giro in modo insopportabile; i suoi atti erano significativi di per sé, considerarli alla luce della legge penale non aggiungeva loro nulla. Ed è nostro figlio, l’abbiamo visto talmente tanto volte da poter dire di conoscerlo bene. Una categoria legale è troppo stretta per una conoscenza tanto completa. Il ragazzo ha preso quei soldi, ma noi ricordiamo tutte le volte in cui ha condiviso con generosità i suoi soldi o i dolci o il suo affetto. Ha colpito il fratello, ma molto più spesso l’ha consolato; ha mentito, ma in fondo è un ragazzo profondamente affidabile.
Lui è fatto così. Ma ciò non necessariamente vale per il ragazzo che si è appena trasferito dall’altra parte della strada.
Gli atti non sono, accadono. Così avviene per il crimine. Il crimine non esiste. Il crimine accade, viene creato. Prima ci sono gli atti. Poi segue un lungo processo di attribuzione di significato a questi atti. La distanza sociale assume una particolare importanza. La distanza aumenta la tendenza a dare a certi atti la definizione di crimine e alle persone la definizione semplificata di criminali. In altre circostanze – la vita familiare è soltanto uno dei molti esempi possibili – le condizioni sociali sono tali da creare resistenza alla percezione degli atti come crimini e delle persone come criminali.

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