Ma quale rieducazione dell’individuo? Di carcere si muore! Negli ultimi dieci anni sono morti oltre 1500 detenuti, con una media di 150 all’anno. Di queste morti, oltre un terzo sono ufficialmente classificate come suicidi: si tratta di persone che non sono state soltanto uccise, ma addirittura indotte da una situazione inumana a rinunciare alla propria vita. Un altro terzo sono classificate come morti misteriose. Quest’anno – al momento della stesura di questo volantino siamo solo al maggio del 2010 – le morti sono già 70, quindi si può facilmente prevedere come il numero sia destinato ad aumentare.
Questi numeri sembrano quasi piccoli, in un mondo dove “cento” non è che una piccola parte dell’affitto di casa o dell’assicurazione dell’auto, in un mondo dove le notizie sul giornale sono diventate un elenco di cifre percentuali sulle quali magari nemmeno il giornalista ha riflettuto, in un mondo in cui ogni partito non fa altro che inventare statistiche per fingersi potente e benvoluto. I numeri rappresentano realtà lontane, li snoccioliamo senza nemmeno pensare a ciò che vi sta dietro. Ed è esattamente questo il problema: “150 morti” sono solo un numero e una parola neri su un foglio bianco.
Lo stato moderno ha ogni giorno la riprova che la sua strategia è vincente: trattando le persone da imbecilli le ha trasformate in imbecilli. Sbaglio a dirti questo? Se è così dovresti tornare da me (o da chi ti ha dato questo volantino) e darmi un pugno. Se non lo fai forse ho colpito nel segno. Chiamo imbecille un essere umano che non è capace di riconoscere se stesso in un suo simile che soffre o che muore. Chiamo imbecille chi passa vicino a un carcere senza chiedersi cosa stia succedendo oltre quel muro. Chiamo imbecille chi è capace di ignorare 150 morti all’anno solo perché non avvengono davanti ai suoi occhi, o perché non conosce personalmente gli individui che perdono la vita. A pensarci bene sono troppo moderato, imbecille è quasi un complimento.
Ma allora imbecilli – o qualcosa di peggio – lo siamo tutti. Diversamente, un luogo inumano e spaventoso come il carcere non potrebbe più esistere. Certo, i luoghi di reclusione sono difesi da professionisti armati; ma quei poliziotti sono solo un granello di sabbia di fronte a tutto il resto della popolazione. L’esistenza delle galere, in ultima analisi, è dovuta all’indifferenza generale. E’ dovuta al fatto che non siamo in grado di provare empatia – o di provarne abbastanza – nei confronti di chi vive una vita indegna di essere vissuta. Perché non stiamo parlando di mostri: anche il più efferato degli omicidi probabilmente dovrebbe dirci qualcosa su noi stessi, ma la maggioranza dei reclusi non ha commesso atrocità, sono solo persone che vivono di espedienti illegali, per scelta o per necessità; persone che possiamo giudicare bene o male esattamente come possiamo giudicare bene o male chi vive legalmente; persone con le quali potremmo avere in comune molto più di quanto crediamo. Persone che vengono tenute ben lontane da noi tramite delle sbarre; lontane dai nostri occhi grazie a un muro; lontane dal nostro pensiero grazie alla propaganda di un’”informazione” che ci tartassa con una cronaca nera esasperata; lontane dalla nostra capacità di indignarci e arrabbiarci grazie a un’etichetta e ai pregiudizi che essa si porta dietro: l’etichetta di criminale.
In questo modo lo stato può permettersi di rinchiudere in un luogo di sofferenza decine di migliaia di persone scomode, può permettersi di ammazzarle o di lasciarle morire nella loro disperazione.
Caro lettore o cara lettrice, perdonami i toni populisti che richiamano un facile sentimentalismo… ma la realtà è proprio questa. Perdonami la provocazione di prima – del resto, se hai letto questo testo senza pregiudizi forse sarai d’accordo anche tu che questa situazione deve finire, che chiudere gli occhi in eterno non è possibile, che agire non è soltanto necessario ma anche urgente.
Nei modi che la tua fantasia e la tua sensibilità di suggeriscono.
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